Capitolo 2. Il mio arrivo negli Stati Uniti

L’idea di passare un periodo all’estero è sempre stata un chiodo fisso sin da quando frequentavo l’Università. Devo però ammettere che ritrovarmi dall’altra parte del mondo faceva molto effetto, nonostante la mia fosse stata una scelta ben ponderata.
Passate le prime settimane le difficoltà mi apparivano sempre più piccole e l’entusiasmo riusciva a spazzare via la paura di non essere all’altezza.
Anche la lontananza da casa e dagli affetti veniva attenuata dalle mie giornate piene di lavoro e di novità: ero euforica!
Da ogni parte mi si prospettavano corsi, aggiornamenti, cadaver lab, meeting. E ancora journal club serali, lezioni a tema, insomma un bombardamento di informazioni che mi travolgeva ogni giorno, un modo totalmente nuovo di rapportarsi al lavoro e di inserirlo nella propria vita.
Il messaggio infatti sembrava essere questo: vivi il lavoro come parte della vita, un lavoro che non puoi decidere di accantonare perché sono le 8 di sera, ma che può essere vissuto in modo da far si che la tua vita non ne venga prosciugata, ma arricchita.
E così ho provato a fare.
Oltre alla John Hopkins University, dove ho potuto incontrare il direttore della cattedra di Ortopedia il Professor Ficke, persona a modo e disponibilissima che mi ha accompagnata lungo tutto il mio anno, le mie giornate si alternavano principalmente tra altri due grandi centri: l’Union Memorial Hospital sotto la guida di uno dei miei tutor il Dr Lew Schon e il Mercy Hospital tenuta davvero per mano da un altro mio maestro Mark Myerson.
In questo contesto ho potuto conoscere gli altri Fellows con cui ho stretto una bella amicizia e con i quali sono rimasta in contatto. Eric, Paul e Rob all’Union Memorial Hospital. Jon, Tab ed Ettore al Mercy Hospital.
In realtà però le persone, giovani medici come me, che ho incontrato durante il mio anno a Baltimora sono state molte di più.
Ogni settimana si aggiungeva qualcuno. Ho conosciuto Fellows da ogni parte del mondo: Germania, Cina, Messico, Inghilterra, Sud Africa, Argentina, Corea, Brasile. Un turbinio di gente che ruotava tutta intorno a questi due guru dell’ortopedia del piede e della caviglia.

Tutto questo rendeva ancora più interessante lo scambio di opinioni lasciando spazio anche a considerazioni culturali e poneva in evidenza come un’unica “materia” o “scienza” quale la medicina e in particolare l’ortopedia, potesse, con le sue indicazioni e classificazioni, accomunare persone e popolazioni così diverse, che si ritrovano però a diagnosticare e valutare le patologie più svariate utilizzando lo stesso metro di giudizio e le stesse cure.
Questo mi dava grinta e mi faceva capire ancor di più di essere nel posto giusto, guidata da due tra gli ortopedici del piede e della caviglia più competenti degli Stati Uniti!

A domanda, risposta

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