Piede piatto: un confronto terapeutico tra bambino e adulto

piede piatto bambino adulto

In questo articolo parleremo di piede piatto, detto anche sindrome pronatoria, e delle diverse domande che i pazienti mi fanno a riguardo.

Prima di tutto penso sia importante dare una definizione di piede piatto, questo perché diversi pazienti hanno dei dubbi su questa condizione, che alle volte può essere una normale caratteristica anatomica.

Ci sono delle variabili, ma non sempre il piede piatto è patologico.

Per capire i limiti di un piede piatto, bisogna capire bene come funziona il piede durante il passo. Per semplificare possiamo dividere il passo in due fasi, una in cui il piede appoggia e una in cui, invece, spinge.

Mentre appoggia, le articolazioni del retropiede devono prepararsi ad ammortizzare, andando in pronazione; il piede, in parole povere, diventa piatto e si comporta come una sorta di “molla”.

Nella fase di spinta diventa, invece, cavo, trasformandosi in una “leva rigida”.

In linea di massima una persona che ha il piede piatto è più predisposta a sport di fatica (come un maratoneta) e meno predisposta a sport in cui è richiesta una “destrezza” importante: questo non significa, comunque, che queste persone non possano svolgere altre attività sportive con successo.

Il piede piatto, quindi, non è sempre una patologia.

Il piede piatto diventa patologico quando da semplice caratteristica anatomica diventa vera deformità, ovvero quando la sua presenza porta a problemi biomeccanici di trasmissione del carico, obbligando muscoli e tendini a lavorare in maniera sbagliata per gestire la deformità.

Più semplicemente, il piede piatto diventa patologico quando fa male.

Dopo aver fatto questa breve premessa, iniziamo con le domande che ho ricevuto dai voi pazienti, dividendo l’analisi tra piede piatto nel bambino e piede piatto nell’adulto.
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Il piede piatto nel bambino

Un piede piatto, può essere:

  • flessibile;
  • rigido.

Nel piede piatto flessibile la prima scelta può essere quella conservativa modificando l’appoggio dall’esterno, ovvero ricorrendo ad un plantare.

Quando questo non è possibile, in quanto soluzione incompatibile con lo stile di vita del paziente, o non è efficace, si ricorre alla chirurgia.

Con un piede piatto rigido, invece, è più probabile dover ricorrere alle soluzioni chirurgiche.

Bisogna specificare che questo discorso va fatto nel piede piatto dell’adulto, non in quello del bambino.
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A che età si diagnostica?

Perché? Perché il piede piatto di un bambino non è una versione più piccola di quello di un adulto: è una cosa diversa e bisogna necessariamente trovare delle soluzioni diverse.

Tra i 2 e i 6-8 anni, ad esempio, tutti i bambini hanno il piede piatto ed è giusto che sia così: questo permette al piede di avere una superficie d’appoggio più ampia, con un conseguente maggior equilibrio.

È, infatti, tra i 7 e i 9 anni che si comprende se effettivamente il piede piatto diventerà patologico o sarà una caratteristica fisiologica nell’adulto.

Questa è l’età giusta per ricevere una diagnosi corretta e per valutare le diverse opzioni.

Le attenzioni rivolte ad un bambino saranno ovviamente diverse rispetto a quelle che si rivolgono ad un adulto, in quanto solo quest’ultimo descrive il dolore e la sintomatologia in modo dettagliato.

Nel bambino invece, bisogna cogliere i piccoli segnali, che magari non sono ancora sintomi, ad esempio la faticabilità, la scarsa destrezza o difficoltà ad eseguire determinati sport.

Questi segnali non sono sempre degli indicatori per la patologia, ma possono sicuramente darci degli indizi, utili a comprendere lo stato delle cose.
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A che età si interviene?

In un giovane adulto, con un piede molto flessibile, l’endortesi può essere una opzione. Tuttavia, non è una soluzione che noi prediligiamo, per due motivi principali:

  • nell’adulto l’endortesi può dare molto fastidio;
  • in un adulto il piede non cresce più.

Va ricordato, infatti, che in caso di endortesi nel bambino, il piede completa la sua crescita intorno alla protesi, modificando la sua conformazione.

È proprio sfruttando quindi la crescita residua del piede che l’endortesi espleta la sua funzione che permane anche in caso di rimozione della protesina. Questo non è di fatto possibile in un piede adulto.

Nell’adulto, la crescita del piede è già avvenuta, quindi la rimozione dell’endortesi (a cui spesso si è costretti per il fastidio/dolore che provoca nel piede adulto al contrario di quello del bambino) equivarrà ad una perdita della correzione ottenuta.

Concludendo: l’età giusta per porsi domande sul piede piatto nel bambino è tra i 7 e i 9 anni, mentre l’età in cui intervenire è tra gli 8 e i 12 anni.
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Il piede piatto nell’adulto

Avere un piede piatto o sindrome pronatoria da adulto, come dicevamo prima, non sempre è un problema.

Può essere semplicemente una caratteristica anatomica.

Come ce ne rendiamo conto? È probabile, ad esempio, che una persona con sindrome pronatoria sia in grado di fare attività sportiva intensa, oppure riesca ad utilizzare diversi tipi di calzatura senza problemi.

Se si presenta una sintomatologia, invece, è importante capire a cosa sia legata. Il piede piatto può “far male” principalmente a due livelli:

  • all’esterno, subito sotto il malleolo peroneale (dolore da sovraccarico);
  • all’interno, lungo il malleolo tibiale, in questo caso ciò che fa male è il tendine tibiale posteriore.

Il piede fisiologicamente lavora in equilibrio, pensate alla solita marionetta che spesso riporto come esempio: ci deve essere un equilibrio tra le forze mediali e quelle laterali.

Se il piede è pronato, i muscoli all’interno lavoreranno costantemente, senza tregua, rimanendo allungati e provocando dolore.

Per tornare alla domanda di partenza: nel momento in cui la fase di crescita ossea si è conclusa, si aprono altre opzioni correttive che considerano il piede come un piede adulto.

La correzione del piede piatto non deve essere vista come un’emergenza, si deve programmare con equilibrio, quando il paziente è pronto, in quanto non salva la vita, ma serve sicuramente a migliorarla.

Quindi, come per ogni intervento, bisogna essere molto motivati e informati, per avere delle aspettative realistiche e per rispettare al meglio le indicazioni che vengono fornite per il recupero post-operatorio.

Normalmente, il piede piatto flessibile si presenta bilateralmente, ovvero in entrambe gli arti.

Tuttavia, non è detto che siano entrambi da operare: spesso la correzione di un piede, porta un beneficio diretto anche all’altro. Le valutazioni in questo caso si fanno dopo un anno: in questo lasso di tempo non bisogna scoraggiarsi se l’arto non operato accusa dolore dopo 4-5 mesi.
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C’è correlazione tra distorsione di caviglia e piede piatto?

Sì, direi che esiste un fattore ambientale post-traumatico.

Il piede piatto può verificarsi, in misura minore, a seguito di:

  • traumi in inversione (il piede scivola verso dentro);
  • traumi in eversione (il piede scivola verso fuori).

I traumi in eversione sono più pericolosi, perché possono lesionare:

  • il legamento deltoideo;
  • lo spring legament;
  • il tendine tibiale posteriore.

Quando si manifesta una lesione ad uno di questi tre elementi, il rischio di sviluppare il piede piatto aumenta velocemente.
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Come si interviene?

Prima di tutto bisogna arrivare alla diagnosi corretta. Per questo è importante la visita specialistica con a disposizione delle radiografie dei due piedi e delle due caviglie in carico, ovvero stando in piedi, perché in questo modo si può avere una visione più completa e chiara del problema.

Se ho un piede piatto patologico devo innanzitutto chiedermi: è flessibile o rigido?

Quando il piede piatto è flessibile bisogna preservare ad ogni costo il movimento delle articolazioni: si procederà riallineando il piede con delle osteotomie (tagli ossei) e si bilanceranno i tendini con delle trasposizioni tendinee. Si va ad agire all’apice della deformità.

Nel piede piatto rigido bisogna, invece, valutare la deformità: è sempre stata rigida oppure la rigidità si è presentata in seguito?

In questo caso, quindi, non si parla di mantenimento del movimento del retropiede, ma di ottenere un allineamento preciso: ne consegue che le strategie correttive saranno diverse, valutate caso per caso.

La cosa fondamentale, rispetto al passato, è la comprensione della deformità grazie alle radiografie in carico e l’aver compreso che nel post-operatorio è importante caricare il prima possibile, anche subito. Quest’ultimo in particolare è un fattore che ha cambiato e cambia il recupero post-operatorio per molti pazienti.
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L’importanza dell’informazione

Siamo giunti al termine di questo articolo, ma vorrei chiuderlo con un assunto, a mio parere, fondamentale: l’importanza dell’informazione del paziente.

Il paziente non arriverà mai a prendere una decisione terapeutica corretta senza affidarsi ad uno specialista. La cura passa attraverso la fiducia che il paziente dà. L’informazione, però, permette ai pazienti di comprendere cosa può fare lo specialista, di comprendere i suoi limiti e di avere delle aspettative adeguate.

L’informazione è la chiave per ogni tipo di operazione; l’informazione è la chiave per essere motivati.
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A domanda, risposta

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