La cartilagine di caviglia

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Per pubblicare serve un gruppo: persone appassionate, giovani, ansiose di migliorarsi ed identificarsi nel progresso del proprio lavoro e della propria professione.
Grazie Camilla, Claudia, Cristian, Laura, Luigi, Miriam, Riccardo! Oggi grazie a voi parliamo della nostra pubblicazione sul KSSTA 1: “All-arthroscopic AMIC(®) (AT-AMIC(®)) technique with autologous bone graft for talar osteochondral defects: clinical and radiological results“.

La cartilagine e la ricerca clinica

La cartilagine è un tessuto prezioso che riveste le nostra ossa a livello delle articolazioni, permettendo un movimento ed uno scorrimento reciproco dei capi articolari fluido e senza dolore.
È un tessuto importantissimo, ma molto delicato: un trauma distorsivo di caviglia banale può essere sufficiente a determinarne una lesione importante.
È un tessuto talmente specifico e specializzato, che varia da articolazione ad articolazione. Si tratta di piccole differenze in termini di contenuto d’acqua, proteine e cellule, ma sufficiente a decretare il successo di alcuni trattamenti in alcune articolazione e non in altre.
È, pertanto, importante, parlare di risultati di un trattamento in maniera critica e scientifica. Queste comunicazioni hanno una doppia finalità.
La prima è quella di favorire il progresso della scienza. Infatti, solo comunicando e pubblicando i risultati di un trattamento, si può individuare la via futura della ricerca.
L’altra finalità, a cui spesso, si pensa meno è la sicurezza del paziente! Oggi l’ortobiologia si muove davvero velocemente e spesso propone nuovi trattamenti di continuo. È importante per il paziente sapere che chi lo cura si preoccupa della sua salute, raccogliendo i dati e studiando il risultato del proprio operato. Questo è indice di sicurezza ed attenzione nei confronti in primis del paziente.

La rivista scientifica

Per il nostro studio abbiamo scelto il KSSTA, la rivista più importante in ambito europeo in tema di patologie del ginocchio e della caviglia che riguardino lo sportivo.
È davvero rilevante sottolineare la rivista che ha accolto il nostro studio tra le proprie pagine, perché aggiunge autorevolezza ai nostri dati.
È sufficiente affermare che i risultati della propria ricerca sono stati pubblicati?
È davvero importante parlare del numero di pubblicazioni di un gruppo, senza dichiarare di che riviste si tratta? Quale “impact factor2 hanno e dove sono indicizzate?
La risposta è no!
Possono sembrare dati solo per gli addetti al lavoro: medici, biologi e ingegneri coinvolti nella ricerca. Sono, invece, aspetti che devono essere comunicati e spiegati bene anche e soprattutto ai pazienti.
Oggi, infatti, esistono tantissime riviste scientifiche e non tutte hanno richiedono gli stessi requisiti ai propri autori.
Un caratteristica importante della rivista è, innanzitutto, che sia indicizzata su un portale di ricerca scientifica. Il portale più noto ed utilizzato dalla comunità scientifica è ”Pubmed”. Il prerequisito per ritenere una rivista autorevole nel suo campo è quello di trovarla su Pubmed!
Ovviamente, questo non è sufficiente a identificare l’importanza dei dati pubblicati. Le riviste vengono, infatti, “pesate” in base ad un impact factor. È un tentativo della comunità scientifica di misurare quanto una rivista e, pertanto, gli studi che pubblica abbiano influenza poi sulla ricerca e sulla pratica medica. In pratica serve per aiutare a distinguere pubblicazioni utili ed autorevoli.
L’impact factor si basa su diversi parametri ed indubbiamente è una scala che può essere criticabile. Ha, però, la finalità di valorizzare studi in cui i pazienti siano stati curati dopo l’approvazione di un comitato etico, i cui dati siano stati raccolti in maniera rigorosa. Insomma valorizza gli studi che sono delle pietre miliari e che hanno elevata probabilità di essere citati da altri studi, come base di partenza.
Quando parliamo di una rivista con elevato Impact Factor parliamo di articoli di poche pagine, ma che condensano lavori di anni di più professionisti.

Scienziati di base e medici che si sono preoccupati di scrivere un protocollo per l’approvazione di un Comitato Etico, prima di iniziare lo studio. L’approvazione è la “condicio sine qua non” per tante riviste ed è una garanzia di qualità per i pazienti: significa che un comitato di persone dedicate ha approvato non solo ma metodologia di trattamento, ma la modalità di reclutamento dei pazienti nello studio e la modalità dell’acquisizione dei dati.
A questo segue la parte di acquisizione dei dati, che il più delle volte significa: visitare i pazienti, valutare quali sono candidati ideali per essere sottoposti al trattamento con successo, curare i pazienti, operarli se necessario e continuare a seguire i pazienti per aiutarli e per analizzare la bontà del trattamento proposto. È evidente che non possa essere un unico professionista ad occuparsi di visitare, operare e continuare ad acquisire dati nel tempo. Per fare ricerca serve un team di medici dedicati.
Infine, è fondamentale uno statistico che studi ed analizzi i dati. Il medico, infatti, può avere competenze statistiche, ma un osservatore esterno trarrà il massimo beneficio dai dati, per di più in modo imparziale.
Infine, una volta acquisiti ed elaborati i dati, l’articolo è da scrivere. Per questo servono competenze specifiche e conoscenza delle riviste.
Altrove nel mondo attento alla ricerca, importanti budget vengono dedicati per questo processo, con persone impiegate il 100% del loro tempo in questa attività.
In Italia, questo, purtroppo, succede raramente.
Per questo, per pubblicare serve un gruppo: persone appassionate, giovani, ansiose di migliorarsi ed identificarsi nel progresso del proprio lavoro e della propria professione. Ricerca significa unirsi per dedicare il proprio tempo ad un progetto, che va al di là della pubblicazione, ma che è la soddisfazione di partecipare al progresso della scienza nel proprio piccolo campo!

Il nostro intervento per la cartilagine (AT-AMIC) 3

In caso di lesione della cartilagine, abbiamo proposto e pubblicato un trattamento completamente artroscopico volta alla rigenerazione cartilaginea.
Tale intervento, innanzitutto, presta attenzione alla mini-invasività: si esegue in artroscopia. Eseguire l’intervento artroscopicamente significa utilizzare due buchini: uno per la telecamera che dia la visione intra-articolare, l’altro per l’operatività. Non aprire l’articolazione non è solo un gesto tecnico per esaltare le capacità chirurgiche, ma un’attenzione ed un rispetto all’articolazione stessa ed alla sua capacità di guarigione intrinseca: i pazienti operati artroscopicamente recuperano più in fretta e hanno meno gonfiore post-operatorio rispetto a quelli operati con tecnica aperta.
In secondo luogo, la nostra tecnica è davvero biologica: sfrutta le capacità rigenerative del nostro corpo!
Infatti, dopo una toilette, ossia una pulizia del tessuto patologico, si eseguono delle micro-perforazioni o delle nano-perforazioni (perforazioni dell’osso di dimensioni ancora inferiori rispetto alle micro-perforazioni) con la finalità di indurre una risalita in superficie delle cellule del midollo osseo definite mesenchimali, cellule con il potere straordinario della rigenerazione.
Ovviamente, da sole queste cellule non hanno la capacità organizzativa di dare vita ad un tessuto sano ed ecco perché sulla lesione si posiziona una membrana collagenica, che ha la funzione di offrire una trama ed un ordito tridimensionali a queste cellule. Trovato un ordine, le cellule mesenchimali sono in grado di dare vita al tessuto cartilagineo originario nella maggior parte dei casi.

L’obiettivo dell’intervento

L’obiettivo dell’intervento è ovviamente rigenerare la cartilagine, ma ancora prima il benessere del nostro paziente.
Ecco perché nel nostro percorso terapeutico prevediamo la somministrazione di score clinici periodici. Si tratta di semplici domande ricollegabili ad un punteggio che diano un valore oggettivo dello stato di salute della caviglia del nostro paziente prima dell’intervento, 6 mesi, 1 anno, 2 anni e 5 anni dopo l’intervento.
Questo è il motivo per cui la mia equipe periodicamente contatta i nostri pazienti sottoposti all’intervento di ricostruzione cartilaginea. Quando il paziente dà la disponibilità a rispondere alle domande sul suo stato di salute, offre due grandi servizi: dati per pubblicare e progredire nella Scienza, dati per il prossimo paziente che può così beneficiare nella scelta delle esperienze passate.
Lo stato di salute del paziente è fondamentale ed è ciò su sui si fondano i nostri report. Ovviamente, però, esiste la necessità di capire dall’interno, visivamente, cosa succeda alla caviglia dopo la riparazione.
Ecco perché i nostri pazienti vengono monitorati nel tempo, come nostro protocollo di cura standard con: radiografie di piede e caviglia in carico, risonanza magnetica e TAC.
La radiografia, l’unico esame eseguibile in piedi, ci dà una stima di un’eventuale deformità dell’arto inferiore e di una possibile successiva armonizzazione del carico a fronte del processo di guarigione.
La risonanza ci informa dello stato di salute della lesione soprattutto in base alla presenza di edema. In pratica, ci segnala se una lesione è ancora attiva o è “spenta” e non è possibile prevedere un’evoluzione in termini di sintomi e di dimensioni della lesione.
La TAC, invece, ci offre una misurazione più affidabile delle dimensioni delle lesione e di una sua eventuale riduzione o addirittura guarigione completa.

Perché è importante curare le lesioni cartilaginee: il rischio è l’artrosi di caviglia

Lo ripetiamo spesso la caviglia è un’articolazione congruente: le superfici articolari combaciano in maniera perfetta.
Un danno cartilagineo è, di fatto, un’alterazione di questo equilibrio: le superfici riducono la loro corrispondenza reciproca.
A lungo termine, una lesione cartilaginea non trattata induce una degenerazione artrosica: i pazienti non curati si ammalano di artrosi di caviglia.
Sappiamo oggi, grazie ad interessanti studi epidemiologici che l’artrosi di caviglia impatta in maniera negativa sulla qualità della vita dei nostri pazienti.
Secondo dati di uno studio canadese pubblicato da un collega ed amico (Alistair Younger 4), il 20% dei pazienti malati di artrosi di caviglia perdono il loro lavoro a causa della grave disabilità.
L’artrosi di caviglia è chiaro che sia una patologia che impatta in maniera davvero negativa la qualità della vita dei nostri pazienti, analogamente a quanto fa l’anca ed in maniera superiore all’artrosi di ginocchio.
Curare le lesioni cartilaginee, non solo spesso permette a giovani atleti di tornare all’attività sportiva, ma impedisce l’insorgenza futura di artrosi di caviglia, una grave e disabilitante patologia.

I nostri risultati a due anni dall’intervento

Il nostro studio ha certificato un grande miglioramento clinico dei pazienti curati con la nostra tecnica. Quanto più il paziente sottoposto all’intervento è giovane, tanto è facile il ritorno allo sport: è un dato davvero interessante, perché spesso la motivazione che spinge il paziente verso l’intervento è proprio il ritorno all’attività precedente.
Come detto, però, a riempirci di soddisfazione e speranza sono anche i risultati delle indagini di immagine.
Le risonanze magnetiche mostrano un notevole miglioramento della lesione a 6 mesi, ma, dato ancora, più rilevante, un’evoluzione della lesione e del processo di guarigione fino a 2 anni dalla lesione.
Questo ci conforta anche per i pazienti in cui il recupero appare più lento e meno soddisfacente. Non è corretto prevedere un re-intervento a breve, perché i processi rigenerativi proseguono nel tempo e si può raggiungere la soddisfazione anche oltre 6 mesi dopo dall’intervento.


1. KSSTA: Knee Surgery, Sports Traumatology, Arthroscopy link al sito KSSTAvedi l’articolo a firma del dr. Usuelli
2. Abbiamo parlato dell'”Impact Factor” in questo articolo
3. Approfondisci il tema dell’AT-AMIC
4. Il nostro amico Alistair Younger – link

A domanda, risposta

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